La tutela contro le discriminazioni

La tutela contro le discriminazioni

Che cosa si intende per discriminazione?

A norma dell’art. 43 primo comma del d. lgs. 25 luglio 1998 n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) “costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico-economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”.

Il secondo comma di tale norma indica cinque condotte discriminatorie. Compiono atti di discriminazione:

a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell’esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità, lo discriminino ingiustamente;

b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità;

c) chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità;

d) chiunque impedisca, mediante azioni od omissioni, l’esercizio di un’attività economica legittimamente intrapresa da uno straniero regolarmente soggiornante in Italia, soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, confessione religiosa, etnia o nazionalità;

e) il datore di lavoro o i suoi preposti i quali, ai sensi dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori), come modificata e integrata dalla legge 9 dicembre 1977, n. 903, e dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, compiano qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza. Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa.

Le cinque condotte indicate sono solo esempi. Anche altre condotte possono rientrare nella nozione di discriminazione.

La definizione di discriminazione deve essere completata con riferimento al d.lgs. 9 luglio 2003 n. 215, che ha attuato la direttiva 2000/43/CE sulla parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica. A norma dell’art. 2 di tale decreto per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell’origine etnica. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, così come di seguito definite:
a) discriminazione diretta quando, per la razza o l’origine etnica, una persona é trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in situazione analoga;
b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.

Sono, altresì, considerate come discriminazioni anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.

Anche l’ordine di discriminare persone a causa della razza o dell’origine etnica é considerato una discriminazione.

L’art. 3 del decreto legislativo vieta specificamente la discriminazione con riferimento alle seguenti aree: accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione; occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento; accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali; affiliazione e attività nell’ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle medesime organizzazioni; protezione sociale, inclusa la sicurezza sociale; assistenza sanitaria; prestazioni sociali; istruzione; accesso a beni e servizi, incluso l’alloggio.

Come è possibile tutelarsi contro le discriminazioni?

E’ possibile ricorrere al Tribunale ordinario del luogo di domicilio dell’istante. Il Tribunale ordina la cessazione del comportamento pregiudizievole e adotta ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione. Può, altresì, condannare il convenuto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale.

A titolo di esempio si consideri la sentenza in data 30 marzo 2000 del Tribunale di Milano che ha condannato una società immobiliare che aveva rifiutato la propria opera di mediazione nei confronti di uno straniero. Significativa è anche la sentenza del Tribunale di Bologna in data 22 gennaio 2001 che ha considerato discriminatorio il comportamento di una immobiliare che sul sito internet aveva indicato la qualità di straniero extracomunitario tra i criteri ostativi alla contrattazione.

Anche la pubblica amministrazione può essere condannata per atti discriminatori. Con sentenza in data 11 febbraio 2008 il Tribunale di Milano ha censurato il provvedimento del Comune di Milano che subordinava l’iscrizione del minore alle scuole dell’infanzia alla titolarità del permesso di soggiorno da parte dei genitori. Con sentenza in data 28 novembre 2012 il Tribunale di Milano ha ritenuto discriminatoria la mancata adozione da parte dei Ministeri competenti dei necessari decreti atti a consentire da parte delle Regioni l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale degli stranieri ultrassessantacinquenni, regolarmente soggiornanti in Italia a seguito di favorevole conclusione della procedura di ricongiungimento familiare. Con sentenza in data 20 dicembre 2012 la Corte di Appello di Milano ha ritenuto discriminatorio il bando per il Servizio civile nazionale nella parte in cui prevede la cittadinanza italiana tra i requisiti per l’accesso, escludendo conseguentemente gli stranieri regolarmente soggiornanti.

La discriminazione può comportare anche conseguenze penali.

Infatti occorre considerare la legge 13 ottobre 1975 n. 654 (Ratifica ed esecuzione della Convezione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966). L’art. 3 prevede che, salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito:

a) con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 Euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;

b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

E’ vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Sono puniti con la reclusione da sei mesi a quattro anni coloro che partecipano a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o prestano assistenza alla loro attività e con la reclusione da uno a sei anni coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi.

Rilevante è anche l’art. 3 del d.l. 26 aprile 1993 n. 122 convertito nella legge 25 giugno 1993 n. 205 (Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa)  che ha disposto in via generale che “per i reati punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità” sia applicata una circostanza aggravante tendente ad aumentare la pena fino alla metà di quella prevista. L’art. 6 ha anche previsto la procedibilità d’ufficio  di tutti i reati aggravati dalla finalità di discriminazione razziale.

La giurisprudenza ha ritenuto che: “Integra gli estremi dell’aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso (art. 3 d. lg. n. 122 del 1993, conv. in legge n. 205 del 1993), l’espressione “sporco negro”, in quanto idonea a coinvolgere un giudizio di disvalore sulla razza della persona offesa” (Corte di Cassazione, Sezione V penale, sentenza 11 giugno 2010 n. 22570).

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Fabio Strazzeri editor

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